Nessuno si è salvato dalla febbre dei like su Facebook in questi anni. Persino il Dipartimento di Stato Americano ha devoluto, tra il 2011 e il 2013, 630.000 dollari a una campagna per acquisire follower! (fosse emersa una cosa del genere in Italia si sarebbe rischiata una crisi di governo).

Un po’ per la novità, un po’ per spirito di emulazione, tutti i grandi brand e una miriade di piccole aziende si sono buttate nella ricerca di like, convinti che mettere il like alla pagina di un’azienda e seguirne i post incrementi il fatturato. In effetti, in un’analisi condotta su Starbucks, emergeva che chi interagisce con i social media spende mediamente l’8% in più di un cliente normale. Ma questo è un classico esempio di fallacia delle misurazioni in cui viene scambiata la causa per l’effetto: lo studio può infatti essere letto al contrario, e dimostrare che i clienti più affezionati tendono a seguire il loro brand su Facebook. Così, uno studio dell’Harvard Business School ha condotto 23 esperimenti nel corso di quattro anni: e il risultato ha categoricamente smentito ogni relazione tra i like e una modifica dei comportamenti di acquisto. Al tempo stesso, in un’indagine su Fortune, l’87% dei responsabili di marketing ha ammesso di non disporre di alcuna prova che l’aumento dei follower generi un effetto sulle vendita. Inutile dire che, essendo negli Stati Uniti il peso di Facebook maggiore che per l’Italia, le conclusioni sono vere, in modo forse più radicale, anche nel nostro paese.

 

Nei termini in cui è stato raccontato, dunque, Facebook è una bolla. Quali sono le ragioni?

La prima è che il like è una forma molto debole di impegno. Da sempre la promozione sul web, in tutte le sue forme, sconta questa incertezza: rendere un po’ più impervia la strada del contatto o renderla facile? Solo la prima strada acquisisce consumatori motivati.

La seconda è che, per ogni giorno che passa, la portata organica delle visualizzazioni dei post diminuisce. Cioè, mettere un post significa in alcuni casi raggiungere l’1% dei follower, per via del profluvio ai altri post che rapidamente lo spingono fuori dalla visualizzazione. Questo vanifica anche l’efficacia del vero effetto passaparola di Facebook: l’informazione che un proprio conoscente ha comprato un bene o utilizzato il servizio di una data azienda. Ormai anche questo dato circola a fatica (e va incontro pure ad aspetti di privacy).

La principale conclusioni cui arriva lo studio del gruppo di Harvard è che il tempo in cui si poteva ipotizzare che FB potesse sostituire la pubblicità è terminato. Per rendere visibili i propri post, infatti, l’azienda deve sponsorizzarli, ovvero pagare la pubblicità su FB. Le tattiche di “pull marketing” (avvicinare i clienti tramite i social media) hanno senso solo se affiancate a quelle tradizionali di “push marketing” (promozione e pubblicizzazione dei servizi).

 

Rimane tuttavia il problema del limitato engagement del like e quello che, di partenza, le persone su FB per lo più non partono dalla motivazione di acquistare beni e servizi. Credo che il rimedio stia in una revisione significativa dei contenuti e della profondità delle interazioni. Arriverei a dire che non sono tanto decisivi i like che l’azienda riceve ma quelli che mette. L’azienda sui social deve smettere di comportarsi come se il centro del mondo fosse la sua produzione e invece dare spazio in primo luogo alla sua identità culturale e in secondo luogo alla qualità della relazione. Un’azienda che segua la pagina di un influencer non professionale e la commenti (pagare un influencer professionale è un’altra cosa ancora), o che intervenga su pagine che virano su temi di più largo interesse sociale (sociale non in senso stretto: vale anche per una pagina dedicata al rock) assume una potenzialità di affiliazione enormemente superiore. Per la stessa ragione, la pagina FB non dovrebbe essere solo una (poco) autosufficiente locandina di facezie ma piuttosto un ponte verso contenuti più interessanti, curati dentro un blog di brand journalism dell’azienda.

 

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