Ha suscitato un certo scalpore il fallimento della catena di negozi Toys, gravata di ben 5 miliardi di debiti. Una spiegazione immediata sarebbe quella che i giocattoli tradizionali non tirino più, e che i bambini siano ormai già proiettati verso le nuove tecnologie. Peccato che sia falsa. In Italia (secondo una linea di tendenza molto diffusa) il mercato dei giocattoli ha aumentato il fatturato per tre anni consecutivi, conoscendo una prima flessione nel 2017, nell’ordine di un accettabile 0.2 per cento.

Si potrebbe, a scelta, sostenere che i negozi sono stati soppiantati dall’e-commerce oppure che per i giocattoli le famiglie prediligano ancora l’incontro fisico con il punto vendita: si potrebbe, appunto, sostenere a scelta, perché Toys è presente in entrambi i settori. E se le spiegazioni opposte sono fungibili significa che non quadra nessuna delle due.

 

La spiegazione va invece cercata nel fatto che l’impresa americana è rimasta una pura e semplice catena di negozi, senza occuparsi pubblicamente di nulla che riguardasse le vendite e limitando la comunicazione al catalogo con i prezzi.

Nella storia di Toys si trova solo un intervento assimilabile (in parte) alla responsabilità sociale d’impresa, con l’affiancamento di una associazione in un’iniziativa rivolta ai bambini disabili.

Eppure il tema dei giochi per l’infanzia è intellettualmente in fermento. Svolgono ancora il medesimo ruolo pedagogico? Cosa accade nel cervello di un bambino che sia sottoposto a un “trattamento intensivo” di giochi digitali? Questo se ci limitiamo puramente e semplicemente al profilo ludico. Se poi l’argomento diventa “bambini e ragazzi” ovviamente ci sono una quantità infinita di discorsi che legano tra loro le persone e occupano uno spazio significativo negli interessi sociali.

 

Un’industria che ha maturato il proprio imprinting nel ramo dei giochi, per non essere travolta da marchi digitali di più recente generazione, ha di fronte a sé due scelte.

La prima è quella di lavorare sull’estensione del brand, e quindi di utilizzare la propria fama e credibilità per trasferirsi parzialmente dal gioco fisico a quello seriamente interattivo, o comunque digitale.

La seconda è quella di difendere a spada tratta il valore pedagogico del gioco tradizionale, con campagne, interventi pubblici, ricerca di proselitismo, forme di coinvolgimento e di “esperienza”.

Questo vale sia per una catena specializzata di distribuzione, quale Toys è, sia per un produttore (va da sé che l’inerzia dell’uno si riversa sull’altro, e che il raddoppiamento dell’inerzia determina l’affondamento di entrambi).

 

Quel che l’industria del giocattolo, nel suo insieme sconta (con l’eccezione di Lego, che ha cucito insieme una difesa “ideologica” dell’antico core business, l’estensione nel digitale e un’eccellente sviluppo di community), è dunque una debolezza strategica e comunicativa, particolarmente inaccettabile in un campo così affettivamente intenso, nel quale farebbe la differenza dimostrare che si possiede una competenza su bambini e adolescenti che va oltre lo stretto utilitarismo di vendere loro dei prodotti.

Da parte aziendale non esiste un web magazine di brand journalism o un festival per l’infanzia o un osservatorio sulla crescita dei bambini o un documento programmatico contenente azioni sociali con ricadute evidenti o un programma didattico tematico realizzato attraverso il catalogo o una potente manifestazione espressiva.

I più garibaldini avvertono che i loro giochi educano la creatività.

Appunto…

 

Anima in Corporation, società di comunicazione non convenzionale, assiste le aziende nell’elaborazione e nella promozione di virtuosi discorsi sociali e nelle manifestazioni espressive che li arricchiscono.

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